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Conati d’amore

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Matilde varcò l’andito del complesso dei benedettini cercando il fazzoletto nella tasca posteriore del pantalone nero Armani e, insieme al codazzo di amici e parenti, si incamminò verso l’Auditorium. Alla sua destra, ai piedi della gradinata, due fidanzati ballavano un lento, accompagnati dalla voce di Mina che fuoriusciva irruentemente da un cellulare di ultima generazione: questo soffitto viola no, non esiste più, io vedo il cielo sopra noi. Dall’aula A1 sfuggiva un nugolo di ragazzi in eccitazione, come stormi di uccelli dopo la schioppettata di un semiautomatica nella solitudine di un bosco.

La nonna, un’ottantenne ancora arzilla, guardava con stupore tutti quei locali che abbracciavano da sud il convento: qui sicuramente ci dovevano essere le stalle. Anche quel mangiapreti di suo marito era preso dalla sindrome di Stendhal. Eppure lui era venuto tante volte a Catania, sin da bambino, con suo padre, a vendere le mandorle al mercato e mai aveva sentito parlare di questo ex monastero, maestoso nella prepotenza della sua architettura, altero e vigile sulla città. E non ci aveva fatto caso nemmeno quando, nell’estate del ‘55, venne ricoverato all’ospedale Vittorio Emanuele per una scheggia che rischiava di fargli perdere l’uso dell’occhio sinistro: sicurissimo, qui un tempo c’erano le stalle, le stalle per le loro mule e i loro *censurata* vestiti di albume. Massaro Ciccio e donna Pippina abitavano ancora in campagna e spesso litigavano col figlio perché questi voleva che si godessero in paese gli anni della pensione: piuttosto morti, al paese si torna solo con le quattro tavole del tabbuto.

Il sole timido di un aprile che stentava a farsi primavera alternava i suoi raggi ieratici al gioco delle nuvole ed annunciava la sua parabola, ormai prossima a farsi occidente. E la musica, la musica erano quelle fronde dell’atrio solleticate dal vento e quella palma all’angolo, un lungo grissino che sembrava quasi implorare con pietà abbatetemi e che, con movimenti dinoccolati, si piegava passivamente a quelle frustate irregolari, ora a destra, ora a manca.
Una folata più forte delle altre strappò il cappello color avorio della signora De Bartoli che finì per fare da cerniera a due pozzanghere. Delle ragazze che fumavano una sigaretta davanti la redazione del giornale universitario Step1 a stento trattennero l’accenno di un sorriso. In effetti quella signora in abito lungo era proprio ridicola, manco fosse uscita da una puntata di Beautiful.

Per mere questioni logistiche le sedute di laurea si svolgeranno nell’aula Santo Mazzarino.

Tutti guardarono con aria smarrita l’avviso che, come una stimmate, emergeva dalle vetrate delle porte e poi, affidandosi con filiazione alla laureanda, come se si fosse nel bel mezzo della processione della santa patrona, la seguirono in religioso silenzio.
Matilde fece la scala sud, che prima aveva confuso con l’ingresso dei bagni, e in quei gradini traballanti e rumorosi incrociò lo sguardo del tutto indifferente di Tommaso. Il lieve gesto di saluto, più che altro frutto delle abluzioni quotidiane nella ritualità, riportò per un frangente il sorriso sulle sue labbra screpolate ed impregnate di una pennellata di rossetto: presto però una lacrima ritornò a sporcare il suo viso e a farle sbavare il fondotinta. Sentire non è vivere. Vedere non è respirare. Maledettamente si accorse di amarlo ancora.


Ma che sono belli questi chiostri, ma chiusi sono? Peccato, lì le fotografie sarebbero venute un amore. La signora De Bartoli non riusciva a farsene una ragione dell’interdizione di quei locali: evidentemente al giorno d’oggi bisognava avere la raccomandazione anche per fare una sortita in giardino.

L’ex refettorio pullulava già di gente tutta in ghingheri. I flash si rincorrevano da un angolo all’altro. Era la nona. Un tizio la vestì della toga.

La vita di Matilde, fino a quel momento, era oscillata esclusivamente tra il sogno e le solite inesattezze quotidiane. Quel baleno coincideva coi suoi venticinque anni, compiuti proprio mentre la primavera irrorava un’orgia di colori sulla ruvida campagna siciliana.

Quando venne il suo turno, si avvicinò alla Commissione con passo felpato e, con voce assai flebile, per nulla facilitata da una acustica pessima, discusse la sua dissertazione su “L’influenza crepuscolare negli Ossi di seppia”, una tesi così brillante da valerle oltre al centodieci e lode anche la pubblicazione. Non smise un solo attimo di piangere, anche dopo la proclamazione. La madre le lanciò uno sguardo severo: così le foto vengono tutte uno schifo.

Per la cena aveva pensato a tutto la signora De Bartoli. Aveva appositamente scelto il lussuoso ristorante Le baccanti di Taormina, tra i più rinomati ed esclusivi della Sicilia, che si distingueva anche per l’offrire un panorama mozzafiato: dai suoi balconi era possibile ammirare il mare di Letoianni e, a destra, le luci di Naxos; l’unico particolare raccapricciante era rappresentato dallo sgabello dei suoi piedi: una pronunciatissima parete rocciosa che arrivava, attraverso arzigogoli di rupi, fino al mare.
Il padre, un affermato avvocato di provincia, non aveva avuto alcuna voce in capitolo: come d’abitudine, si limitava a firmare gli assegni e assecondare le bizze della consorte. A dire il vero a lui interessavano altre cose: in pieno crepuscolo della democrazia, era largamente immischiato nella politica clientelare di quella Sicilia sposa delle velleità dei disperati e imprigionata nella lussuria dei privilegi.

Matilde corse ad affacciarsi senza che nessun occhio se ne accorgesse: erano tutti impegnati ad ascoltare i suoi genitori che non lesinavano lodi alla figlia. Non è di tutti i giorni avere una tesi pubblicata. Certo: il relatore, un incartapecorito che ha il vizio di sonorizzare tutte le consonanti, si sarebbe preso tutto il merito. Accade sempre così.

Fu come guardarsi allo specchio. Di fronte a quella luna pallida che la mirava superba, a quel rossore che le giungeva alle spalle – che spettacolo l’Etna in eruzione, un’affascinate fontana rossa che trasforma in gualdrappa tutto il versante sud-orientale- Matilde si ritrovò liceale. Guardò le sue gambe storte che la obbligavano a mettere sempre i pantaloni, le mani goffe e paffute. Ripensò alla dieta che aveva provato a fare più volte, alle snervanti sedute dall’odontotecnico, al seno che si era ammutinato proprio all’età della pubertà. È difficile imparare a fare la scriminatura alle proprie ferite.

All’epoca della maturità classica aveva deciso di non continuare gli studi e a farle cambiare idea non erano state certo le pressioni dei suoi, quanto il sogno romantico di trovare un fidanzato in quei corridoi universitari generalmente affollati. E così, accanto alla partecipazione assidua alle lezioni, si era data alla caccia spasmodica di un fidanzato, trasformando l’università da mero parcheggio a pubblica agenzia matrimoniale.

In realtà un ragazzo lo aveva trovato, un collega conosciuto in aula A7 durante una lezione di Storia della letteratura siciliana.

Quella mattina di due anni fa l’aula striminzita era particolarmente affollata e il giovane, scavalcando tutti coloro che occupavano il passaggio centrale, si era diretto vicino la cattedra. Tommaso, per l’affettata spacconeria, non si era accorto di essersi seduto su una sedia rotta che proprio per questo era rimasta vuota. Era arrivato col culo a terra in mezzo alle fruscianti risate di tutti. Poi, al termine della lezione, aveva chiesto proprio a lei delucidazioni sul programma e su quanto fosse *censurata* il professore. Matilde gli aveva risposto che era molto preparato, intellettualmente stimolante e che le lezioni erano iniziate da un pezzo. Se voleva, poteva passargli gli appunti. Li aveva anche trascritti al computer e stampati.

Avevano finito con lo studiare assieme. Lui aveva bisogno di input, se no non combinava un caxxo. Sempre a rincorrere gonne e a misurare col metro della sua libidine i seni delle ragazze. Si mettevano al bar della facoltà o, quando non c’erano lezioni, nelle stesse aule.
Un giorno- quel giorno si erano messi a ripetere in un’aula dell’area nuova miracolosamente dimenticata aperta, una stanzetta piccolissima con ancora le sedie imballate e con un lacerante odore di stantio- quasi senza accorgersene avevano fatto collimare le loro labbra. L’amore finalmente, aveva gridato in cuor suo, stordita da quel primo bacio.
Prima di quel momento aveva vissuto solo amori intransitivi, mai ricambiati, la condanna a respirare la vita senza viverla.

Tommaso era alto – superava il metro e ottanta - aveva un capello rosso fuoco con i riccioli che a volte nascondevano i due occhi grandi, molto vispi, di un blu cobalto, che spiccavano sul volto come due lucerne. Il naso era diritto e proporzionato, le labbra carnose e rosse, i denti bianchi in riga, ognuno al suo posto come in un plotone. La pelle era nivea, tanto era chiara, lucida e soffice, con qualche piccola lentiggine a rompere la monotonia di quella perfezione. Le mani erano da pianista, con le dita lunghe e sottili. I muscoli vezzosamente disegnavano un corpo statuario.

L’aveva perfino convinta a prendere parte alle manifestazioni politiche. Proprio in quei giorni la campagna elettorale era alle battute finale e nei giorni seguenti, con forte rammarico, Tommaso aveva dovuto accettare la sconfitta della sua area politica.


L’idillio si era concluso presto però. Dissolto con il postribolo delle crocifisse verità, sprofondato come Atlantide, nonostante lei avesse cercato di avvincerlo come una mantide.
Un’ amica di Matilde, quella cornacchia di Carlotta che si trovava sempre al posto giusto quando si trattava di scrivere epitaffi- studiava Scienze della Comunicazione proprio per fare la giornalista- aveva sorpreso Tommaso a pomiciare con una matricola dentro il bagno per disabili del secondo piano e subito era corsa a fare rapporto. Per l’amicizia questo e altro. Matilde, impegnata nell’aula A1, per l’occasione trasformata dal movimento studentesco in sala video per così assistere alla prima conferenza stampa del nuovo Governo, innocentemente si era domandata dove fosse finito.

Ripensando a tutti questi fatti un fremito le corse lungo la schiena e con maggiore disperazione guardò la scarpata che si apriva al mare con una specie di sorriso. I singhiozzi si trasformarono ben presto in uno sguardo pieno di determinazione.

Il cielo si rischiarava dei lampi che baluginavano nell’atmosfera macchiandola di un colore simile al viola. Era in arrivo un violento temporale. Il mare era agitato e sbatteva i suoi flutti fino a creare una spuma che veniva risucchiata da se stessa. Anche la luna aveva chiuso la finestra. Non era una notte in cui farci l’amore.

I camerieri intanto cominciavano a servire gli aperitivi.

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